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In questi ultimi anni mi sono interessato a studiare dei paragoni tra la disastrosa ritirata della Grande Armèe napoleonica, in Russia nell’Ottobre 1812, e quella degli Alpini tra il dicembre 1942 e febbraio 1943.

Sono effettivamente molti gli elementi in comune: soprattutto la terribile tragedia apocalittica, la morte per la fame e per il freddo, che colpì degli eserciti numerosissimi: 200.000 Alpini nel 1942 (ne tornarono un quarto), 650.000 soldati nell’esercito francese del 1812 (ne tornarono un decimo), tra cui 60.000 Italiani comandati da Gioacchino Murat (ne tornarono solo 2.000).

Certamente in comune la scarsità delle fonti: in entrambi i casi i documenti militari vennero abbandonati nella neve e nei ghiacci durante la disastrosa ritirata. Per quello francese irrecuperabili (probabilmente c’erano anche allora tanti valsassinesi, ma non lo sapremo mai).
Più fortunati con quelli Italiani, recuperati dai Russi, che nel 2006, date le allora ottime relazioni tra Putin e Berlusconi, permisero ai ricercatori italiani di visionarli (e ne sono uscite delle ottime pubblicazioni).

Dicevamo della tragedia: in entrambi i casi il freddo a – 40 gradi : Napoleone fu sfortunato, perchè di solito il freddo a Ottobre non è come a Gennaio, ma quell’anno fu particolarmente intenso a causa di una eruzione vulcanica che raffreddò l’intero pianeta.

Molti soldati, dopo una giornata strascicata nella neve, rimasero congelati. Era un problema anche fare la pipì: non solo questa si solidificava (problema rilevato anche dagli Alpini), ma addirittura il terribile freddo congelava alcune parti del corpo umano (dalle orecchie, al naso, all’organo genitale) che a volte si staccavano dal corpo come un pezzo di ghiaccio rotto (cosa che provocava comprensibilmente disperazione).

La fame soprattutto: non c’era più nulla da mangiare, durante la ritirata. Alcune analisi del DNA effettuate su scheletri di soldati francesi ritrovati presso Smolensk hanno dimostrato che questi ultimi cercavano di sfamarsi catturando insetti (a Ottobre ancora se ne trovavano).

Gli Alpini neanche quello: Alberto Nogara, l’attuale Sindaco di Taceno, ricorda un episodio riguardante suo zio in Russia, Mario Nogara.
“Un soldato di Cortenova, un certo Ciresa, chiese a mio zio, che guidava un camioncino, se avesse qualcosa da mangiare. Mio zio estrasse da sotto il sedile una caciotta di formaggio, e gliene diede metà.”
“Con quella mezza caciotta – disse il Ciresa ad Alberto, incontrato durante una processione a Biandino il 5 Agosto di un po’ di anni fa – sono riuscito a sopravvivere per una settimana, ed è grazie a quella che sono ancora vivo”.

Più fortunati però i soldati francesi: non avevano mezzi meccanici, e comunque anche gli Italiani ne avevano pochissimi.

Però avevano tanti cavalli: all’inizio della spedizione (22 Giugno 1812, lo stesso giorno della “Operazione Barbarossa”, iniziata il 22 giugno 1941) i Francesi disponevano di circa 200.000 cavalli. Molti morirono nei primi mesi, anche in battaglia (Borodino) o erano indispensabili nella ritirata per trainare carrozze e armamenti.
Però appena morivano vicino ai soldati questi potevano avvicinarsi e, con un coltello, nutrirsi del loro sangue (la carne diventava immediatamente troppo dura con quel freddo). Il sangue di cavallo fu la salvezza per molti soldati e ufficiali sopravvissuti della “Grande Armèe”.

Gli Alpini invece non avevano cavalli, ma pochi muli indispensabili e intoccabili.

Un’altra causa di morte comune furono le malattie: non aver potuto lavarsi e cambiarsi così a lungo sviluppava germi batterici e pidocchi che spesso intaccavano gravemente la salute degli uomini .

Infine, ultima cosa, da rilevare il diverso atteggiamento della spedizione italiana in quelle due occasioni. Accanto ai Tedeschi, nel 1942, gli Italiani si sentivano disprezzati e poco considerati : non a caso il Comandante del CSIR Generale Giovanni Messe già nel 1941 aveva inutilmente consigliato a Mussolini di evitare di mandare altri soldati italiani in Russia.

Vennero quindi inviati dai Tedeschi nelle retrovie, insieme ai Rumeni, e la loro ritirata ignorata dai ben poco disponibili “kameraten”, che si rifiutarono persino di accogliere i soldati italiani feriti sulle loro camionette.

Gli Alpini italiani sentivano che quella guerra, oltre che micidiale, era sostanzialmente inutile e in realtà erano poco motivati.

Completamente diverso invece l’atteggiamento dei 60.000 soldati provenienti dal Regno d’Italia e comandati da Gioacchino Murat. Si batterono con un valore che strabiliò persino Napoleone, prodigo di decorazioni e di medaglie (in particolare nella battaglia di Malojaroslavets, alle porte di Mosca, per questo nota come “la Battaglia degli Italiani”).

Molti di loro si sacrificarono anche nella “Battaglia della Beresina“, che come Nikolajewka nel Gennaio 1943 consentì ai resti dell’armata di uscire dalla tenaglia russa e di trovare una via di liberazione.

Dalle poche lettere che abbiamo, inviate a casa, possiamo pensare che questi soldati italiani vedessero in Napoleone qualcuno che avrebbe ridato l’unità nazionale all’Italia, come la ridiede alla Polonia (anche i Polacchi furono dei “fedelissimi”, mentre i Prussiani disertarono quasi subito) e che quindi volessero dare prova di coraggio come se fosse stata una prima guerra di indipendenza per la loro patria.

Insomma, in conclusione, in entrambi i casi la causa principale del disastro fu sostanzialmente la sottovalutazione della forza e della capacità di resistenza del popolo russo, aiutato dal “Generale Inverno” e dalla vastità delle steppe innevate.

Questa scarsa conoscenza del popolo russo (soprattutto nel 1812) costò molto cara: Napoleone perse tutti i suoi soldati migliori (e Waterloo ne fu una conseguenza) e Hitler perse una guerra mondiale cominciata con le migliori prospettive per lui, e che fortunatamente si orientò diversamente a cominciare da Stalingrado.
Le lezioni della Storia allora andrebbero studiate, per non ripeterne gli errori.

Enrico Baroncelli

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